"Assalto al pm" - Prefazione di Marco Travaglio
La prefazione di Marco Travaglio al libro "Assalto al pm" di Luigi de Magistris (Chiarelettere).
Ho conosciuto Luigi de Magistris otto anni fa, nel maggio 2002, quando mi invitò a un convegno che aveva organizzato a Napoli insieme ad altri giovani pubblici ministeri della sua città. In quel convegno c’era già tutto Luigi, fin dal titolo: «Le forme del dissenso tra riformismo e globalizzazione».
L’iniziativa suscitò polemiche ancor prima di svolgersi. Sia perché a promuoverla erano fra gli altri Francesco Cascini e Marco Del Gaudio, che poco tempo prima avevano fatto arrestare otto agenti di polizia per le violenze commesse contro decine di giovani no-global al Social Forum di Napoli 2001, triste prova generale della mattanza del G8 di Genova del luglio successivo. Sia perché i magistrati promotori avevano firmato un «Manifesto per la Giustizia» che definiva la magistratura «il luogo privilegiato di emersione del conflitto tra l’affermazione di una società unilaterale e lo Stato di diritto»: un conflitto tra autorità e libertà che «può risolversi unicamente nella mediazione imparziale di un organo indipendente».
Quel giorno Luciano Violante, allora capogruppo Ds alla Camera, gettò definitivamente la maschera bacchettando i magistrati organizzatori: «Mi sembra un manifesto in parte infondato e in parte demagogico; credo che si abbia il pieno diritto di scrivere certe cose, ma poi si deve essere pronti a essere criticati. Considerare la magistratura come unico e ultimo argine della democrazia è un errore assai grave. Considerare se stessi come ultimo ridotto della democrazia significa innanzitutto fare un’analisi sbagliata della società e, secondo, caricare se stessi di responsabilità
che non si possono rivestire proprio in quanto magistrati: sono due aspetti assai delicati e si rischia così di non essere credibili agli occhi dell’opinione pubblica quando si fanno affermazioni di questo genere». Per fortuna a rimettere le cose a posto sul diritto-dovere dei magistrati di partecipare al dibattito giuridico e costituzionale, intervennero poi due persone serie come Armando Spataro e Piercamillo Davigo.
Un paio d’anni dopo, de Magistris si trasferì a Catanzaro, una delle sedi giudiziarie meno appetibili e appetite dai magistrati italiani. E affrontò subito con entusiasmo la nuova avventura in Calabria, terra d’origine di sua moglie: l’entusiasmo di un figlio del Sud che discende da una famiglia di magistrati (lo erano il bisnonno, il nonno e il papà, quest’ultimo autore della memorabile sentenza sul «caso Cirillo»). La prima indagine importante in cui fu coinvolto dai suoi capi, prima di capire chi davvero fossero, colpì due persone che conoscevo e ritenevo perbene: l’avvocato Ugo Colonna e l’onorevole Angela Napoli, dissidente di An, entrambi combattenti dell’antimafia. Il primo
finì addirittura in carcere per violenza e minaccia a corpo giudiziario aggravate dalla volontà di favorire la ’ndrangheta; la seconda «soltanto» indagata con la stessa accusa. Scrissi su «MicroMega» un duro articolo che smontava quell’inchiesta, dalla quale ben presto sia Colonna sia la Napoli furono completamente prosciolti.
Qualche mese dopo, dovendo verificare la posizione processuale di un parlamentare del centrodestra per un libro che stavo scrivendo, telefonai a de Magistris in ufficio. Ma, alla mia domanda, mi attaccò il telefono in faccia.
Tant’è che nel 2006, quando partì la campagna politico-mediatica che mirava a dipingerlo come un magistrato che passava notizie segrete alla stampa, gli mandai un sms scherzoso: «Possibile che passi notizie segrete a tutti e, a me che ti chiedevo una notizia pubblica sull’onorevole Tizio, hai sbattuto la cornetta sul muso?». Erano i mesi caldi delle inchieste «Poseidone», «Toghe lucane» e «Why not» e delle furibonde polemiche montate dopo l’iscrizione nel registro degli indagati dell’allora premier Romano Prodi, di vari faccendieri calabresi, magistrati lucani, parlamentari di destra e di sinistra e infine dell’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella. Fui tra i pochi giornalisti, insieme a Carlo Vulpio, Antonio Massari, Enrico Fierro e Franco Viviano, a difendere il lavoro di de Magistris sulla stampa nazionale (allora scrivevo su «l’Unità» e su «L’espresso» e già collaboravo con Annozero). Luigi ogni tanto mi ringraziava per i miei articoli con sms dolenti, ma mai rassegnati, sempre sereni e determinati.
Era convinto che la Costituzione sarebbe bastata a proteggere la sua indipendenza, il suo diritto-dovere di indagare fino in fondo, dalla voglia matta di destra e sinistra di farlo fuori. Si sbagliava, purtroppo. Isolato quando non addirittura attaccato dall’Anm, cioè dal sindacato togato che avrebbe dovuto difenderlo, ignorato dalle varie correnti progressiste e conservatrici della magistratura (forse perché non si era più iscritto alla fu Magistratura democratica), de Magistris fu difeso pubblicamente soltanto da Clementina Forleo, da Antonio Ingroia, da Felice Lima, da
Piercamillo Davigo e da un pugno di colleghi napoletani (fra cui Marco Del Gaudio e Pino Narducci).
Michele Santoro e Sandro Ruotolo lo invitarono a partecipare ad Annozero, una volta con un’intervista registrata e un’altra in collegamento diretto, quando i suoi superiori gli sfilarono dalle mani prima «Poseidone» e poi «Why not», anticipando così la controriforma dell’ordinamento
giudiziario Mastella-Castelli, iniziata dal centrodestra e sciaguratamente approvata dal centrosinistra: quella che gerarchizza le procure, espropria i sostituti procuratori del potere d’indagine «diffuso» e conferisce ai capi degli uffici poteri di vita e di morte sulle indagini. Controriforma che consentì subito dopo a Mastella di chiedere, in via cautelare e dunque urgentissima, la rimozione di de Magistris da Catanzaro. Richiesta poi prontamente esaudita, con un altro fulmineo procedimento avviato dal procuratore generale della Cassazione, dal peggiore Csm che l’Italia abbia mai avuto. Quello in cui siedono molti consiglieri in palese conflitto d’interessi, per i loro legami con indagati eccellenti di de Magistris, oltre alla «laica» nominata dal Pdci Letizia Vacca, che si permise addirittura di anticipare il giudizio («sono cattivi magistrati che vanno colpiti») su Luigi e sulla Forleo, la gip di Milano che aveva osato difendere pubblicamente il collega nel programma di Santoro, e che fu anch’essa indebitamente cacciata.
Alla fine la sezione disciplinare del Csm punì Luigi con la «censura» e con il «trasferimento ad altra sede e ad altre funzioni», vietandogli cioè di esercitare il ruolo di pm. La censura era motivata con la «grave e inescusabile violazione di norme e disposizioni». L’incompatibilità ambientale era spiegata col fatto che de Magistris aveva denunciato «magistrati in servizio a Catanzaro in uffici diversi». L’incompatibilità funzionale, infine, era dovuta al mancato «rispetto
di regole di particolare rilievo» nonché alle «insufficienti diligenza, correttezza e rispetto della dignità delle persone». La lettura delle motivazioni del provvedimento, costellate di assurdità, illogicità e financo menzogne, dava la netta impressione che prima si fosse deciso di condannare
de Magistris «a prescindere», poi si fosse cercato «qualcosa » per giustificare la decisione già presa. Del resto l’anticipazione di giudizio della Vacca e la dichiarazione del vicepresidente
Nicola Mancino (presidente della Disciplinare) che, violando il segreto della camera di consiglio, parlò di «verdetto unanime», gettavano sulla vicenda altre pesanti ombre. Così come la decisione della Disciplinare di non attendere la conclusione delle indagini della Procura di Salerno, dove de Magistris aveva denunciato gli autori del presunto complotto ai suoi danni e dove quel complotto
era ormai sul punto di essere provato (l’aveva appena rivelato allo stesso Csm il pm salernitano Gabriella Nuzzi).
Vorrei qui riportare, in sintesi, le tre «incolpazioni» che hanno portato alla condanna di de Magistris, sulle circa venti, mosse dal pg della Cassazione (per tutte le altre – fughe di notizie, interviste, Annozero eccetera – è scattata l’assoluzione).
1) De Magistris non avvertì il suo procuratore Mariano Lombardi di aver iscritto nel registro degli indagati l’avvocato e onorevole forzista Giancarlo Pittelli nell’inchiesta «Poseidone », secretando in cassaforte l’atto di iscrizione. Ma Pittelli non era un indagato normale, né Lombardi un procuratore normale. Lombardi infatti ha un figliastro (figlio della sua convivente) che è socio in affari di Pittelli. E Pittelli era il difensore di diversi indagati da de Magistris. Il quale aveva
motivo di ritenere – come ha denunciato a Salerno – che certe fughe di notizie che avevano vanificato intercettazioni e perquisizioni provenissero proprio dal suo capo. Insomma si trovava in una situazione inedita e non prevista dalle leggi: avrebbe dovuto riferire a un procuratore legato a filo doppio a un suo indagato. Per questo – per proteggere il bene supremo della riservatezza delle indagini – Luigi aveva deciso di non informarlo, temendo che Pittelli venisse a sapere di essere indagato e mandasse a monte l’inchiesta. Infatti, appena Lombardi seppe che Pittelli era stato indagato, levò l’indagine a de Magistris. Ma, anziché occuparsi di Lombardi (che ha traslocato in altra sede prima del processo disciplinare), il Csm ha trasferito de Magistris.
2) Nell’ordine di perquisizione a carico del pg di Potenza Vincenzo Tufano, indagato per abuso d’ufficio nell’inchiesta «Toghe lucane», de Magistris inserisce la testimonianza del gip potentino Alberto Iannuzzi, che accusa il pg di aver chiuso gli occhi sul fatto che un giudice del tribunale
presiedeva un processo in cui, a sostenere l’accusa, era una pm che – secondo voci insistenti – era anche la sua fidanzata. Con tanti saluti alla terzietà del giudice e con tanti auguri all’imputato. De Magistris – scrive il Csm – «non ha indicato elementi di riscontro» alle parole di Iannuzzi.
Dunque ha arrecato «danno» e «discredito» a Tufano. Una «negligenza» così «grave e inescusabile» da consentire al Csm di sindacare sul merito di un provvedimento giurisdizionale,
cosa che per legge sarebbe vietata. Ora, fermo restando che siamo nel terreno dell’opinabilità più sfrenata, è del tutto fisiologico che durante le indagini si formulino ipotesi di accusa che proprio le indagini (e le perquisizioni) sono chiamate a confermare o smentire. Se tutti i pm che accusano un indagato fossero trasferiti per averlo screditato, non avremmo più un solo pm in circolazione. Pretendere che il pm parli bene dei propri indagati è forse un po’ eccessivo. Infatti l’unico che s’è visto contestare un’accusa così demenziale è de Magistris. Tufano e i due eventuali fidanzati sono rimasti ovviamente al loro posto.
3) De Magistris, «con inescusabile negligenza, dopo l’emissione ed esecuzione nei confronti di 26 indagati di un provvedimento di fermo, ometteva di richiederne la convalida al gip, determinando la conseguente dichiarazione di inefficacia da parte del gip». E qui, dall’illogicità, si passa alle bugie. Nel maggio 2005 de Magistris chiede una raffica di misure cautelari per ventisei presunti mafiosi e narcotrafficanti. Ma il gip ci dorme sopra un anno e si perde il fascicolo per strada. Intanto gli indagati rimasti liberi seguitano a delinquere: uno tenta addirittura un omicidio. Vista l’inerzia del gip, nel giugno 2006 la polizia chiede a de Magistris di emettere un provvedimento di «fermo del pm» per tutti gli indagati. Lui lo firma insieme a Lombardi il 23 giugno. Il 12 luglio scattano gli arresti per ottanta persone in varie parti d’Italia. Due giorni dopo – come vuole la legge – de Magistris chiede ai gip delle varie città interessate la convalida dei fermi e altrettante misure cautelari. E qui commette una svista, puramente formale e innocua, dovuta – spiegherà lui, invano, al Csm – agli enormi carichi di lavoro: in calce alla richiesta dimentica di inserire la formula di rito «chiedo la convalida del fermo» e scrive soltanto che vuole la custodia cautelare. Ma è evidente che il provvedimento è finalizzato anche alla convalida dei fermi (visto che arriva entro quarantotto ore dai fermi e le richieste cautelari riposano in pace sul tavolo del gip da un anno). Tant’è che i gip delle altre sedi capiscono tutti al volo: convalidano i fermi e lasciano gli arrestati in
carcere. Solo il gip di Catanzaro non capisce, o finge di non capire, e scarcera i fermati. Il tutto sebbene de Magistris – accortosi della svista – abbia subito inviato una nota in cui precisa di volere la convalida.
Il pm emette un nuovo fermo per evitare la scarcerazione di quei pericolosi individui, poi richiede convalida e manette, stavolta con la formula di rito. Ma il gip respinge la richiesta e rimette quasi tutti in libertà. De Magistris ricorre al Riesame, che gli dà ragione su tutto, bocciando il gip e rimettendo dentro i tipi in questione. Per il pg della Cassazione e per il Csm, questa sarebbe una «grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile» da parte di de Magistris (non da parte del gip che lascia liberi per un anno e poi scarcera soggetti pericolosissimi fermati
due volte dal pm). Secondo il Csm, il gip di Catanzaro non poteva capire l’intenzione del pm perché «il deposito del provvedimento del fermo non comportava necessariamente la richiesta della sua convalida, potendo il pm anche disporre l’immediata liberazione del fermato e omettere la richiesta di convalida». Già: ma qui de Magistris non voleva la liberazione, tant’è che chiedeva (da un anno!) le misure cautelari. Se uno vuole scarcerare un fermato, non chiede di arrestarlo. Infatti tutti i gip d’Italia hanno convalidato i fermi, tranne quello di Catanzaro. Se errore c’è stato, non è affatto «grave», almeno da parte del pm: perché, per tener dentro quei soggetti, bastava che il gip negasse la convalida dei fermi, ma applicasse le misure cautelari esplicitamente richieste dal pm. Se invece il pm non si fosse sbagliato e avesse chiesto anche la convalida del fermo, e il gip l’avesse accolta negando – come ha fatto – le misure cautelari, i soggetti sarebbero usciti comunque (il fermo dura quarantotto ore, che erano già scadute). Cosa che infatti è avvenuta con il secondo fermo e la seconda richiesta di de Magistris, respinta dal gip poi sbugiardato dal Riesame. Dunque, se c’è un errore grave, è quello del gip (che però non è stato nemmeno indagato dal pg della Cassazione né dal Csm). Pare il teatro dell’assurdo, ma è per questo che de Magistris viene condannato, trasferito e inibito per sempre dalle funzioni di pm.
Non basta. La stessa Disciplinare del Csm pareva rendersi conto dell’assurdità dell’addebito e, pur di rafforzare la «gravità» della «colpa», prendeva a pugni la logica e il buonsenso con il seguente paralogismo: «La qualificazione “grave” va posta in relazione sia all’importanza della norma violata sia al carattere evidente, indiscutibile dell’errore, come tale necessariamente conseguenza di “negligenza inescusabile”». Par di sognare: un errore innocuo e irrilevante
diventa «grave» solo perché «evidente». Se il giudice Mario Rossi si distrae e firma una sentenza «Franco Rossi», l’errore è «evidente e indiscutibile» e viola la norma «importante
» che prevede la riconoscibilità del giudice. È pure grave e inescusabile? Anche Mario Rossi sarà condannato? Al confronto, l’avvocato Azzeccagarbugli era un dilettante.
Ultima delizia. La «colpa» di de Magistris sarebbe «grave e inescusabile» anche perché il procuratore Lombardi ha dichiarato al Csm che de Magistris riconobbe l’errore: e Lombardi «è credibile in quanto anch’egli firmatario dei provvedimenti di fermo e di richiesta custodiale». Paradosso dei paradossi. Una cosa è grave se è grave. Se invece è irrilevante, non può diventare grave perché lo dice qualcuno, tra l’altro coinvolto personalmente (Lombardi è stato denunciato da de Magistris e perciò indagato a Salerno). E poi: se Lombardi è «anch’egli firmatario del provvedimento » ritenuto grave e inescusabile, perché è stato condannato solo de Magistris e Lombardi non è stato nemmeno processato? Pare di essere al cabaret, invece siamo al Csm, ridottosi ad acronimo di Ciechi Sordi Muti.
In attesa di prendere possesso delle sue nuove funzioni nella sede dov’è stato trasferito, il Tribunale del riesame di Napoli, de Magistris completa il suo lavoro a Catanzaro e prepara le richieste di rinvio a giudizio dell’ultima grande inchiesta rimastagli fra le mani, quella sulle «Toghe lucane» (fra gli indagati c’è pure il pm di Potenza Felicia Genovese, celebre fra l’altro per aver indagato così bene sulla scomparsa di Elisa Claps). Ma, mentre sta scrivendo, il nuovo guardasigilli, il berlusconiano Angelino Alfano, gli intima di prendere possesso immediato, dunque anticipato,a Napoli. Così gli impedisce di portare a termine anche l’unica inchiesta che non gli era stata tolta.
L’epilogo della storia l’aveva previsto già nel 2006, con la sinistra lungimiranza di un Nostradamus malandrino, uno dei «clienti» più illustri di de Magistris: Giuseppe Chiaravalloti, ex magistrato, ex governatore forzista della Calabria, indagato in quel momento a Catanzaro per associazione
per delinquere nell’inchiesta «Poseidone» (poi il nuovo pm opterà per l’archiviazione) e tutt’oggi sotto inchiesta a Salerno per corruzione giudiziaria e minacce. In una telefonata intercettata nel 2005 con la sua segretaria, Chiaravalloti così parlava di de Magistris: «Questa gliela facciamo pagare... Lo dobbiamo ammazzare. No, gli facciamo cause civili per danni e ne affidiamo la gestione alla camorra napoletana... Saprà con chi ha a che fare... C’è quella sorta di principio di Archimede: a ogni azione corrisponde una reazione... Siamo così tanti ad avere subìto l’azione che, quando esploderà, la reazione sarà adeguata!...Vedrai, passerà gli anni suoi a difendersi...».
Le indagini di de Magistris, passate in altre mani, verranno smembrate, sminuzzate, sfigurate e in parte, secondo l’accusa sostenuta dalla Procura di Salerno, insabbiate dai magistrati che le ereditano. Gli imputati eccellenti verranno archiviati l’uno dopo l’altro, mentre saranno rinviati
a giudizio perlopiù i pesci piccoli e medi. Intanto anche i pm di Salerno – Luigi Apicella, Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani – che stanno scoprendo le ragioni di Luigi e i torti (per non dire i reati) dei suoi superiori e di molti suoi colleghi vengono a loro volta attaccati da destra e da sinistra,
isolati dall’Anm e puniti fulmineamente dal Csm, con la fattiva collaborazione del capo dello Stato (Nuzzi e Verasani trasferiti e inibiti dalle funzioni di pm, Apicella addirittura destituito, con la scusa di una inesistente «guerra fra procure» tra Salerno e Catanzaro).
Missione compiuta: nessuno deve più avvicinarsi alla fogna politico-affaristico-giudiziaria calabro-lucana. Chi tocca quei fili muore, almeno professionalmente. Ne sanno qualcosa non solo de Magistris, Forleo, Apicella, Nuzzi e Verasani; ma anche i magistrati onesti di Potenza che hanno denunciato i loro superiori a Catanzaro (Henry Woodcock, Alberto Iannuzzi, Rocco Pavese e Vincenzo Montemurro, trascinati dinanzi al Csm e in alcuni casi puniti); e ancora i consulenti Gioacchino Genchi e Piero Sagona, defenestrati dalle indagini; così come il capitano dei Carabinieri Pasquale Zacheo, trasferito dall’Arma ad altra sede; e l’inviato del «Corriere della Sera» Carlo Vulpio, che aveva seguito puntigliosamente le indagini di de Magistris e che, da allora, non ha più potuto scrivere una riga sul suo giornale. Come nel romanzo Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, chiunque si sia avvicinato al verminaio catanzarese è inesorabilmente caduto.
Intanto, a mano a mano che si susseguono le archiviazioni e le assoluzioni degli indagati eccellenti delle indagini scippate a de Magistris, la stampa e le tv di regime si divertono a spacciarle per altrettanti «fallimenti» dell’ex pm, dipinto come un visionario, un incapace, un fabbricante di «teoremi». Purtroppo non sappiamo né potremo mai sapere come sarebbero finite quelle indagini se non gli fossero state scippate sul più bello. Nessuno potrà mai stabilire se fossero fondate su elementi solidi e concreti o su fumisterie persecutorie, perché nessuna di esse è stata portata a termine dal pm che le aveva iniziate, e dunque tutto quel che è accaduto dopo non lo riguarda. Ma è improbabile che i suoi indagati eccellenti fossero tanto ansiosi di liberarsi del magistrato che indagava su di loro, se erano così sicuri della propria innocenza e della sua manifesta incapacità: in quel caso avrebbero avuto tutto l’interesse a lasciargli completare il suo lavoro, così che venisse smentito dai giudici, quelli «buoni», quelli che restano a piè fermo in
Calabria, quelli che – statistiche alla mano – non hanno mai fatto condannare nessuno per corruzione o concussione. Insomma quelli che hanno trasformato la regione più inquinata d’Italia in una sorta di Eden incontaminato, con statistiche penali da far invidia alla Scandinavia. Quelli di
cui non s’interesserà mai nessun politico, nessun ministro e nessun Csm. Invece la preoccupazione generale era proprio quella di impedirgli di andare fino in fondo nelle sue
indagini, onde evitare che centrassero l’obiettivo. Le iniziative di pm pazzi o inetti o visionari s’infrangono regolarmente contro il muro dei gip e dei gup, dei riesami, dei tribunali, delle corti d’appello, della Cassazione.
Qui, invece, la coscienza sporca degli indagati eccellenti aveva intuito che, con quel pm al lavoro, le cose potevano mettersi molto male. Espulso come corpo estraneo il disturbatore de Magistris, la classe dirigente calabrese può tornare alla serenità di sempre, ben protetta da una magistratura
che, salvo rarissime eccezioni, non ha il brutto vizio di disturbare.
È bene che queste cose gli italiani le sappiano e non le dimentichino mai. Soprattutto ora che, non potendo più fare il mestiere che reputa il più bello del mondo, quello del pubblico ministero, Luigi de Magistris si è dato alla politica ed è stato eletto europarlamentare nelle liste dell’Italia dei valori. Naturalmente gli hanno subito rinfacciato di avere sfruttato la sua notorietà per fare politica, come lo rinfacciarono a Michele Santoro nel 2005, quando dopo tre anni di inattività forzata per l’editto bulgaro, non potendo più fare il suo mestiere di giornalista televisivo, si candidò alle Europee come indipendente nelle liste dell’Ulivo.
È fin troppo evidente che né a de Magistris né a Santoro sarebbe mai venuto in mente di darsi alla politica, se avessero potuto seguitare a fare i mestieri a cui erano vocati.
E le loro vicende, per molti versi simili e parallele, dovrebbero sollevare un dibattito serio su quanto è avvenuto nella Seconda Repubblica dei partiti che da sedici anni combattono i poteri terzi, i ruoli di controllo, le funzioni arbitrali. E spesso riescono a rendere la vita difficile, se non
impossibile, a chi non si rassegna al ruolo di impiegato,non si accasa, non si mette al servizio di nessuno. Per questo il libro "Assalto al pm" di de Magistris è utile. Non perché racconti la vita di un santo (il protagonista, come tutti gli esseri umani, ha commesso i suoi errori, ha avuto le sue debolezze, ha tradito le sue ingenuità e, fatta salva la buona fede, non ne ha mai fatto mistero). Ma perché racconta una parabola che non è un caso isolato, un fungo spuntato nel deserto, ma l’ennesimo sintomo del male incurabile che corrode il paese: la guerra senza quartiere dei poteri forti e sempre meno occulti alle figure terze, agli irregolari, ai non omologati; la quotidiana potatura
delle siepi per segare le punte che emergono dal conformismo, dal servilismo e dalla mediocrità al ribasso.
Non si tratta di una serie di casi individuali, perché il virus colpisce tutti i cittadini: sono loro le vere vittime di questo sistema. Basti pensare all’oggetto dell’inchiesta «Poseidone», da cui tutto è cominciato: 800 milioni di euro spesi in Calabria in dieci anni per depurare le acque del mare, soldi pubblici (statali, regionali ed europei) in gran parte rubati da politici, affaristi e «prenditori» (definizione di Pippo Callipo) senza scrupoli, col risultato che le acque della Calabria sono più sporche di prima e mettono in fuga l’unica risorsa che potrebbe risollevare la regione dalla sua cronica depressione: i turisti. Risultato: la classe dirigente che ha partecipato a quella gigantesca ruberia è sempre al suo posto, mentre il magistrato che aveva osato trascinarla sul banco degli imputati ha dovuto andarsene.
La presenza nella magistratura e nell’informazione di personalità forti, anticonformiste, controcorrente è una fortuna, una garanzia, una risorsa preziosa. Non averle è un danno per tutti. Più si accorciano le distanze fra destra e sinistra verso il partito unico degli affari e dei malaffari,
verso la casta unica dei giornalisti servi, verso la corporazione togata forte coi deboli e debole coi forti, più l’esistenza di individualità riottose agli ordini dei manovratori e obbedienti soltanto alla Costituzione è un formidabile antidoto al regime.
De Magistris la sua battaglia all’interno della magistratura l’ha irrimediabilmente perduta. Ma l’accoglienza che gli ha riservato Antonio Di Pietro nelle sue liste, la valanga di voti soprattutto giovani che l’ha portato a Bruxelles e il patrimonio di stima, simpatia e credibilità che ha saputo
conquistarsi sono comunque motivi di speranza. Sia per quello che Luigi potrà fare nel suo nuovo ruolo di presidente della commissione di controllo sui fondi europei, sia perché la sua esperienza è un deterrente contro nuovi «casi de Magistris»: prima di cacciare un altro magistrato perbene
solo perché si è permesso di indagare a destra e a sinistra senza chiedere il permesso alla destra e alla sinistra, il partito dell’impunità ci penserà bene. Perché, a partire dal «caso de Magistris», sa che non potrà farlo a costo zero, nelle segrete stanze, lontano da occhi indiscreti dell’opinione
pubblica. A patto che il «caso de Magistris» sia conosciuto e ricordato da tutti.
da VoglioScendere